Realismo e costruttivismo politico: breve interpretazione del caso Dall’Orto

È molto interessante, anche se lo ammetto, forse soltanto per me e per poch* folli, un fenomeno stranissimo: nel dibattito intellettuale, e quindi, e lo ribadisco, sostanzialmente aristocratico fra anti-neoliberali, la costellazione di posizioni politiche, poco spesso espresse, molto più spesso implicitamente ricavabili, si apre ad una geografia assiologia molto complessa, ma riassumibili in due filoni principali: da una parte i realisti, dall’altra i post-nichilisti.

La questione è filosoficamente più aperta che mai. Come giustamente dice Franca D’Agostini spessissimo nei suoi convegni e nelle sue lezioni il post-nichilismo è una posizione filosofica agonizzante ormai da trent’anni, ma che non dà cenni di cedimento, uno stato di coma irreversibile che produce però pensiero e pratiche contemporaneamente al realismo, suo gemello malvagio, sempre più forte e finanziato accademicamente in quanto banalmente è parso interessante soprattutto politicamente a moltissimi.

Non è mia intenzione qui svelare come in  “realtà” i neoliberali siano sostanzialmente realisti e che il realismo sia un’ideologia funzionale al mantenimento dell’ordine socio-economico, che sia ancella del capitalismo finanziario e sua più grande fonte di legittimità teorica, benché questa sia di fatto la mia posizione e benché creda sia sufficiente un minimo di riflessione genealogica sull’ideologia liberale sin dalle sue origini e nei suoi sviluppi post-moderni come neo-liberismo per scoprire quanto il realismo, inteso soprattutto nella sua declinazione pratica, scientista, imperialista, antropocentrica, sia fondamentale per l’istituzione capitalista.

Quello che vorrei fare qui è domandarmi(ci): quanto è rilevante proporre un ritorno alle cose come stanno nella nostra lotta politica? È davvero proficuo proporsi come realisti, attenti analisti e scienziati del reale, tacciando ogni ipotesi critica, ogni suggestione scettico-nichilista, di neoliberismo, dimenticare l’intera tradizione nichilista da Kant (posizione mia personalissima), Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, fino a giungere al post-strutturalismo, rimuovendo chirurgicamente ogni istanza che io definirei autenticamente filosofica che si domanda cosa diavolo sia la semantica del reale, cosa significhi che il mondo e la mia esperienza siano reali?

Ho oggi scoperto che Giovanni Dall’Orto ha pubblicato il 16 luglio sul suo nuovo e mordace blog “In cerca di guai” un articolo introduttivo il blog stesso, in cui taccia la teoria queer, insieme col pensiero debole, il costruzionismo sociale e altre teorie che potrei nella somma definire “critiche” di forte influenza post-nichilista, in guerra con la “realtà”. Cito testualmente:

«Il turbo-capitalismo (sotto i suoi undicimila avatar: postmodernismo, anarco-capitalismo, neoliberismo, libertarianesimo, teoria queer, culto trans, pensiero debole…) è in guerra con la realtà.» (Dall’Orto G., dall’articolo Una premessa necessaria (Perché questo blog) sul suo blog  A caccia di guai https://giovannidallorto.wordpress.com/2017/07/16/una-premessa-necessaria-perche-questo-blog/)

Lasciando perdere che la quel theory sia messa insieme al non ben identificato “culto trans” di cui mi piacerebbe capire meglio qualcosa, non si capisce se Dall’Orto si rivolga al fenomeno eterosessualizzante della normalizzazione binaria del transessualismo come denunciano attivist* del calibro di Porpora Marcasciano che in più di una occasione ha ribadito quanto le potenzialità sovversive politiche di una forte identità trans* vengano neutralizzate oggi da unalenta, ma costante reimpostazione delle identità trans* nell’identità maschile oppure femminile, specialmente nelle interpretazioni dei/delle trans* più giovani, oppure, al contrario, in una fantomatica perdita dell’autentica o mistica dualità maschile/femminile che nella persona trans si confondono compromettendo la cadenza di Venere con Marte, mettendoci a tutte un terrificante Saturno contro tanto fastidioso, tanto infausto, tanto schifosamente queer.
Lasciando perdere il vituperassimo Vattimo che tanto ha dato e tanto ha perso nell’ambito filosofico, soprattutto quando oggi si lascia avvinghiare dalla retorica fusariana che, grazie al cielo, non lo ha ancora conquistato appieno, dimenticato che tutto questo venga assimilato all’anarco-capitalismo e al neoliberismo, cosa intende Dall’Orto quando afferma  che noi tutt*, perché a questo punto la questione si fa seria e preferisco prendere parte, siamo in guerra con la realtà?

1. Realtà e identità politica

Poco più avanti nel suo breve articolo scrive Dall’Orto:


«
So bene che il trend culturale che afferma che “l‘omosessualità non esiste” è solo un’eco del mantra che afferma che “la classe operaia non esiste più” o che “non esiste una base biologica al concetto di donna“, o che…. Però questa “eco” è quella che rimbomba nell’isola in cui vivo io, quella gay. E questa guerra andrà comunque combattuta isola per isola, anche se il suo destino verrà deciso su ben altri fronti (quello economico prima di tutto). Quindi mi limito solo a fare la mia parte. Nessun soldato ha mai vinto da solo una guerra. Ma preparare idee, ossia munizioni, per la guerra a venire, ha comunque senso: nessuna guerra è mai stata vinta senza essere stata preparata prima di combatterla. Mussolini si è illuso che bastasse la “fede” e la “volontà”, facendo a meno di munizioni, aerei, camion e carburante, ed è finito come è finito.» 

  Dall’Orto G., dall’articolo Una premessa necessaria (Perché questo blog) sul suo blog  A caccia di guai https://giovannidallorto.wordpress.com/2017/07/16/una-premessa-necessaria-perche-questo-blog/

Tralasciando l’infelice fatto che si scelga proprio Mussolini per esemplificare l’ideale negativo del buon “guerriero politico” troppo poco virile per combattere la guerra senza grossi pistoloni, accolgo innanzitutto la preoccupazione di Dall’Orto. So che entrambi siamo fondamentalmente di sinistra e anti-neoliberali, e che lui sa che io so che lui sa che forse a primavera, molto più facile in autunno, andremo a votare per le politiche e che la sinistra anti-neoliberale dovrà trovare di trovare quel quid che, evidentemente, non è Alfano. Sa che io so che lui sa che io so che non esistono quei bei pistoloni teorici che nemmeno Mussolini aveva e che manca la teoria prima della pratica. So però io che il pensiero e le pratiche, molto sparpagliati qui e là per lo stivale, ci sono e che una teoria queer o comunque una teoria sessuale post-strutturalista anti-capitalista esiste ed esiste anche in italia. Teoria che evidentemente lui nemmeno prende in considerazione e il motivo non ce lo spiega mai, visto che non è la prima volto che il celebre storico e attivista gay accusa la teoria queer di neoliberismo. Prima nell’articolo “Contro la teoria queer” e poi direttamente sul suo libro, va detto, magistrale, “Tutta un’altra storia, L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra” dove il sottotesto teorico è una feroce critica al post-strutturalismo, specialmente alla teoria della sessualità di Michel Foucault.
Quali sono gli argomenti utilizzati da Dall’Orto?
Non ne esistono; o per meglio dire, siccome per l’autore la “realtà” storica dell’identità omosessual è autoevidente, non stenta a mostrarci con una incredibile “mostra” della storia omosessuale, un lavoro ripeto magistrale che mostra non solo le grandi capacità di storico di Dall’Orto, ma anche la sua passione teorico-politica, come tale “realtà” sia poiché da sempre è esistita.
Come ho già scritto parlando del dibattito fra costruzionisti e realisti, il realismo mi pare una forma di rinuncia teoretica. La filosofia stessa eccede la banalità del fatto. Il fatto come giustamente veniva chiamato da Nietzsche, stupido, idiota, nel senso di chiuso in sé, fermo, non c’è dianoesi né tantomeno semplice noesi nell’acquisizione del fatto reale.
Dall’Orto qui si comporta da autentico realista proponendo come siccome un fatto accade allora ogni problematizzazione di esso non ha alcun senso. Accade con l’identità gay, accade con l’identità di genere, appare pure con l’identità etnica, nel caso specifico non mi pare con Dall’Orto, ma è un fenomeno che esiste pure nella comunità gay.

Quello che però più profondamene Dall’Orto intende è una preoccupazione che ci lega tutt* quant*. Quanto la sussunzione ideologica delle lotte gay e lesbiche e pure femministe, nell’alveo politico del neoliberismo, può produrre un appiattimento delle identità politiche, cioè della consapevolezza politica delle “classi sub-alterne” o come potrebbe dire Judith Butler dei corpi precarizzati più vulnerabili che sono oggi la possibilità di un cambiamento di regime.

Vorrei a questo punto domandarmelo chiaramente: esiste un costruzionismo sociale anche queer tendenzialmente innoquo, favorevole al neoliberismo? Probabilmente si. Probabilmente si tratta di centri di potere soprattutto teorico, localizzati ipotizzo in Accademie e Università che promuovono un metodo di analisi dualistico riprendendo il gender-sex system di Rubin che allora fu tanto rivoluzionario e che oggi fa tanto comodo alla conservazione del binarismo di genere. Ecco perché, a mio avviso, è ad esempio importante fare la differenza rispetto alla narrazione dei Pro-life rispetto alla così detta teoria gender e come sia accoglibile la posizione di Lorenzo Bernini in merito. Non mi pare che la teoria queer butleriana sia minimamente conciliabile con le posizioni teorico-politiche sopra indicate e che spesso vengono strumentalmente utilizzate nella propaganda dai pro-life.

Esiste quindi un legame fra costruzionismo sociale e neoliberismo? Sì, ma non di necessità. Io credo che oggi la teoria queer in Italia, in luoghi come Bologna ad esempio, situazione a me vicina, sia importante proprio per il sorgere di una consapevolezza politica in molt* di noi giovani gay, lesbiche, trans*, ragazze e persone in generale non-etero, che, deluse dall’innocenza e la superficialità politica dei più tradizionali devices politici lgbt, si riferiscono a collettivi che producono pensieri e pratiche politiche più profondamente rivoluzionarie.

2. L’importanza della scelta contro l’asfittica necessità del reale

Ma arrivando alla questione centrale: è davvero importante fare atto di fede realista?

Quello che io credo è che riprendere un marxismo scientifico, razionalista e realista, che ci impone di fare la rivoluzione perché è inevitabile che avvenga, perché io sono uno strumento del totale, un momento nel movimento globale della storia verso il suo fine necessario, sia un’enorme castrazione politica. L’importanza della prospettiva realista emerge solo se si crede sia rilevante comprendere come le cose stiano in realtà per assecondarne un andamento a noi assolutamente altro e quindi indipendente. Il realismo è per me una grossa de-responsabilizzazione politica. Quello che io sento come politico è la scelta nell’ambito di una relativa libertà, un campo della possibilità che il politico è. Se il politico non è eccedenza dal fatto banale allora è mera amministrazione, quella che tanto spesso vieneidentificata proprio con l’ideologia neoliberale.

Questo credo serva, consapevolezza politica e consapevolezza nell’ambito della possibilità politica, non necessaria aderenza all’evoluzione storica.

Se esistono solo interpretazioni e non fatti, allora è mio dovere politico nell’ambito di una condizione sociale collettiva, prendere posizione della mia azione nel collettivo e risponderne. Responsabilizzarsi è in netta contraddizione con l’aderenza a una realtà fattuale o con l’espressione di una natura interna nelle mie pratiche esterne.

Io credo che la grande rivoluzione sia comprendere come la rivoluzione non sia per nulla necessaria, sia una contingenza e forse pure una grande sofferenza poiché si dovrà muovere da noi stess* e guardandoci da fuori andare oltre quella che credavamo fosse una realtà assoluta, una realtà a noi sempre raccontata come tale e che da sempre ci aveva celato la libertà in cui da sempre eravamo. Il nulla eterno.

 

Un pensiero riguardo “Realismo e costruttivismo politico: breve interpretazione del caso Dall’Orto

  1. “Come ho già scritto parlando del dibattito fra costruzionisti e realisti, il realismo mi pare una forma di rinuncia teoretica”

    I realisti non rinunciano ad una teoria della realtà (ontologia), non sono invece interessati ad una di come si conosce la realtà (epistemologia). Sono i costruzionisti, da Kant in poi, ad aver messo l’accento sull’epistemologia a danno dell’ontologia. E la teoresi di cui lei parla – che mancherebbe nei realisti – è l’epistemologia.

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